
di Giorgia Pellicanò
Me l’ero godute tutte, quelle piccole sensazioni magnifiche, il calore del suo abbraccio, la piacevole stretta, e guardarlo in quegli occhi dolcissimi, che mi osservavano come se stessero vedendo qualcosa di rarissimo, come se davvero valesse la pena di guardarmi, come nessun altro sguardo al mondo che si fosse mai posato su di me, e mi faceva bene al cuore. E accarezzargli il viso con il dorso delle dita, passarle tra i suoi capelli morbidi, svegliarmi la mattina accanto a lui, addormentarmi con la testa sul suo petto. Prenderlo per mano.
Poi era dovuto andare via di nuovo, ma lo sapevamo.

Lui aveva la sua vita e io avevo la mia, e avevo il mio lavoro e l’iscrizione all’università che era una storia infinita, e il mio allenamento, tra piscina, palestra e lezioni di danza, e avevo la mia dieta di definizione, le mie lavatrici da fare, e i miei libri di seconda mano resuscitati dalla polvere e il giallume nei mercatini di Camden Town, che portavano con sé il profumo fragile delle cose dimenticate; c’erano il mio ukulele dalle note stranamente nostalgiche, a volte un bongo, i miei appunti scribacchiati di fretta su fogli mezzo strappati raccolti alla buona, tenuti insieme dalla fiducia che un giorno sarebbero stati rilegati a dovere in qualche lussuosa copertina effetto pelle antica. Avevo la spesa da trascinare fino al frigo giallo della cucina gialla del mio appartamento, l’aspirapolvere da passare in tutte le stanze, avevo le sveglie da impostare per il mattino dopo e tutte quelle mie assurde liste di cose da fare – ricordati di fare yoga, comprare il latte, dormire – cucinare mi rilassava tanto, mi faceva sentire come se potessi dare sfogo alla necessità di amare qualcuno, una persona qualsiasi, che avrebbe gustato i miei biscotti al miele e burro di arachidi o le mie parmigiane col basilico fresco, che lottava per sopravvivere alla mia pessima cura. Avevo il basilico da annaffiare, sì. E il tè da far intiepidire il giusto prima di sorseggiarlo fino all’ora che dovevo proprio filare a letto. Quando tutto questo non bastava avevo lo shopping su e giù per Oxford Street o in uno di quei centri commerciali tutti a vetri, grandi come le città da dove vengo io, e ancora i caffé con le amiche, le serate in discoteca o in qualcuno di quei pub inglesi con la moquette per terra, a pagare una birra il doppio di quello che vale. Per quello che vale bere una birra con un amico quando se ne ha bisogno.
Ma da qualche parte, anche se non lì, dico, da qualche parte nel mondo, che fosse anche l’altra parte del mondo, sapevo di avere lui.