
di Giorgia Pellicanò
Scesi giù al lavaggio e trovai Nico che batteva la carne.
“Che fatica la vita!” dissi in un sospiro.
“Mamma mia!” rispose Nico, e riprese a battere la carne.
A Nicola non importava che abitassimo a Londra, lui viveva ancora a Napoli, e tutti nella sua Napoli potevano capire il suo dialetto, persino Romy che era francese. Viveva a Londra da due anni, e non parlava una parola di inglese se non quelle rare del menu, che Valerio dal canto suo, romano fino all’osso com’era, faceva fatica a cogliere. Eppure ci provava davvero a parlare inglese lui, cominciava ogni frase con quel tono spedito, pieno di speranze che si infrangevano in qualche parola italiana arraffazzonata nei meandri poco chiari del discorso che forse nella sua testa si era raggomitolato in mille nodi, ma sono sicura fosse un filo di cotone bello teso all’inizio. Ci provava lui. Un po’ come ci provano tutti, gli italiani che sbarcano qui a Londra come se fosse la terra promessa, o la promessa di una vita migliore, di un lavoro migliore, o semplicemente di un’avventura, e finiscono tutti naufraghi sulle spiagge di qualche ristorante. A fare i garzoni. Siamo tutti gli immigrati di qualcuno, e questo gli italiani, con la presunzione di un orgoglio tanto sciocco quanto duro a morire, rifiutavano categoricamente di accettarlo, nonostante lo vivessero storicamente da sempre. Gli italiani chiamavano i non-italiani con l’appellativo di “stranieri”. Erano tutti stranieri: i francesi, gli spagnoli, persino gli inglesi, in Inghilterra. Era come se una volta approdati da qualche parte quella terra ci appartenesse, come se una terra ci sia mai appartenuta per davvero, come se gli italiani non fossero francesi, spagnoli, barbari e ancora turchi ottomani e greci, anche loro. Come se quella superiorità culturale di cui pensavamo di vantarci ci avesse mai davvero portato da qualche parte, se non lontano dall’Italia, in un posto in cui, nonostante tutto, forse veniva apprezzata di più.
In una Napoli eretta a Londra, in una cucina a vista, dietro il bancone di un ristorante di proprietà di inglesi, dove Nico preparava l’impasto della pizza sua e non so, datemi della sentimentale, ma a me sembrava qualcosa di magico.
“Sono venuto qua per cambiare vita”, mi disse una sera Valerio, che a Roma vendeva erba e perciò credeva di essere un criminale.